Da quando il James Webb è stato lanciato nel Natale 2021 l’umanità intera è rimasta col fiato sospeso in attesa delle sue osservazioni: queste, spingendosi nell’infrarosso e sfruttando le notevoli dimensioni dello specchio primario del James Webb, avrebbero apportato un guadagno di informazione scientifica non indifferente alle attuali conoscenze astrofisiche.
Come in tutti i processi scientifici, non sono mancati attimi in cui si è sentito necessario il dover tornare indietro sui propri passi. Certo, lungi da tutti voler subito urlare alla crisi del modello cosmologico standard, ma è innegabile che – oltre alle ben note tensioni tra osservazioni e teoria – quella delle galassie primordiali costituisca un grattacapo per i sostenitori del Modello Standard della cosmologia.
Le galassie osservate dal James Webb a redshift elevatissimi (ovvero, lontanissime da noi nello spazio e vicinissime al Big Bang nel tempo) sono fin troppo massive, molto più di quanto ci aspettassimo.
Secondo il Modello Standard della cosmologia, queste giovani galassie primordiali – con un’età di appena 600 milioni di anni (contati dal Big Bang) – non dovrebbero avere tutte le stelle che sembrano mostrare dato che non avrebbero avuto il tempo di formarne così tante. Allora cosa si potrebbe fare? Si potrebbe, ad esempio, rivedere l’approccio utilizzato nella misura della massa di una galassia.
In parole povere, per stimare la massa di una galassia si misura la quantità di luce totale emessa dalla galassia e, tenendo a mente quante stelle potrebbero essere necessarie per emettere luce in tale quantità, si stima la massa della galassia.
Clara Giménez Arteaga, dottoranda presso il Cosmic Dawn Center (Danimarca), ha esaminato – insieme ai coautori – cinque galassie osservato con Webb: in questi casi, se non si approssima la galassia ad un solo grande ammasso di stelle ma bensì si considera l’esistenza di più sorgenti diverse, le masse risultano addirittura fino a 10 volte più grandi delle stime precedenti. Come mai questa discrepanza?


L’idea di fondo è che, amalgamando tutta la luce di una galassia, vengono considerate insieme sia le stelle più luminose che quelle meno luminose, dando più peso però alle prime, un classico effetto di bias astrofisico. Invece, considerando come contributi separati i singoli pixel di una galassia, emerge come in realtà la maggior parte della massa sia distribuita negli ammassi di stelle più deboli all’interno di una galassia e non in quelli più luminosi. Ragion per cui, “spezzettando” una galassia, si conteggiano meglio anche le stelle deboli le quali apportano più contributo alla massa totale senza venir eclissate dalle stelle più luminose.
L’importante analisi effettuata in questo studio ci dice come bisogna trovare metodi che diano una correlazione precisa tra la massa ed altre osservabili di una galassia primordiale, senza dover necessariamente sperare in una impeccabile risoluzione delle immagini – data la distanza mastodontica di questi oggetti.
Un nuovo tassello che va ad inserirsi nel grande quadro della cosmologia moderna, e tanti altri stanno per arrivare. Mettetevi comodi che ne vedremo delle belle!
A cura di Biagio
Fonti:
https://www.media.inaf.it/2023/05/19/lo-strano-caso-dei-pesi-supermassimi/
https://iopscience.iop.org/article/10.3847/1538-4357/acc5ea/pdf