Astronomia multimessaggera – I cantastorie del cosmo – atto III – gli infrarossi (Parte 2)

Continuiamo il nostro viaggio alla scoperta della radiazione infrarossa. In questa seconda parte ci concentreremo su ciò che questo tipo di onde ci può raccontare del cosmo e quali sono e sono stati gli strumenti migliori con cui abbiamo potuto e possiamo, tutt’oggi, ascoltare l’universo infrarosso. Come abbiamo già visto nell’articolo precedente, la radiazione infrarossa è anche detta radiazione termica. Ogni oggetto reale (che quindi ha una temperatura superiore allo zero assoluto, ovvero -273,15 gradi Celsius), anche i più freddi, emettono luce infrarossa. Inoltre, grazie alla sua lunghezza d’onda, tale radiazione può attraversare indisturbata gas e polveri, a differenza della luce visibile che viene inevitabilmente bloccata. Infatti, ad esempio, come già detto nella prima parte, i pompieri usano dispositivi infrarossi per orientarsi in zone sature di fumo. Queste caratteristiche già ci possono far capire, intuitivamente, come gli astronomi possono utilizzare l’osservazione infrarossa: per studiare corpi molto freddi che non emettono luce visibile o per sbirciare attraverso fitte nubi di polveri e gas e scoprire cosa c’è al loro interno. Anche questa volta vedremo com’è stato possibile spingere la nostra conoscenza e osservazione del cosmo infinitamente oltre quello che i nostri occhi ci possono concedere. Come, infatti, si sarà già capito leggendo questi primi articoli, la straordinaria potenza dell’astronomia multimessaggera, che ci permette di osservare l’universo tramite le varie lunghezze d’onda della luce e attraverso altri fenomeni che tratteremo in seguito, risiede nel fatto di rendere l’invisibile visibile, di darci la capacità di porgere l’orecchio a storie cosmiche altrimenti impossibili da ascoltare. Addentriamoci, quindi, nell’astronomia infrarossa. Bisogna sapere, innanzitutto, che buona parte della radiazione infrarossa proveniente dallo spazio è assorbita dal vapore acqueo contenuto nell’atmosfera. Ciò richiede, quindi che la ricerca astronomica nell’infrarosso può essere condotta solo tramite telescopi situati sulle cime di montagne molto alte o grazie a strumentazione montata su aerei d’alta quota o satelliti. Un esempio di telescopio terrestre è lo United Kingdom Infrared Telescope (UKIRT), situato sulla cima del vulcano inattivo Mauna Kea, alle Hawaii, ad una quota di 4300 metri. A questa altitudine ci si trova al di sopra del 90% del vapore acqueo atmosferico e, quindi, si possono condurre osservazioni nello spettro infrarosso. UKIRT è costituito da un telescopio principale riflettore, di tipo Cassegrain (una particolare configurazione di telescopio), di 3,8 metri di diametro ed è dotato di diverse camere sensibili a varie lunghezze d’onda della radiazione infrarossa. Con strumenti a terra si può osservare nel vicino e medio infrarosso, ovvero le bande più vicine alla luce visibile (si veda la figura 6 del precedente articolo), con lunghezza d’onda minore.

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Figura 1) Lo United Kingdom Infrared Telescope sulla cima del vulcano Mauna Kea.

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Figura 2) Il telescopio da 3,8 metri di diametro all’interno dell’osservatorio.

In generale, un telescopio per l’osservazione infrarossa è un telescopio ottico, cioè costituito da specchi (ci sono tipi di telescopi detti “rifrattori” costituiti da sistemi di lenti ma non sono tra gli schemi migliori per i grandi osservatori) che riflettono e convergono la luce in camere speciali capaci di rilevare la radiazione infrarossa. Come abbiamo visto nel primo di questa serie di articoli, i vari tipi di “luce” che costituiscono lo spettro elettromagnetico non sono altro che campi elettromagnetici oscillanti che si muovono nello spazio. Sappiamo, inoltre che un campo elettromagnetico può indurre una corrente all’interno di un circuito elettrico. Ad esempio, un fulmine, che produce un campo elettromagnetico, se cade molto vicino ad abitazioni o comunque a zone dove vi sono dispositivi elettrici, può indurre una corrente al loro interno danneggiandoli. Ed è proprio su questo fenomeno (ovviamente è una semplificazione ma l’idea di base è questa) che si basa il funzionamento delle camere sopra citate (e anche dei rilevatori di onde radio e microonde visti nei precedenti articoli): il campo elettromagnetico associato alla radiazione infrarossa produce una debole corrente indotta nei circuiti della camera la quale, tramite sofisticati programmi, viene trasformata in dati che, a loro volta, possono essere convertiti in immagini. Le camere inoltre devono essere opportunamente raffreddate fino a temperature prossime allo zero assoluto per evitare che il rumore termico emesso dalla camera stessa contamini i dati.

Come detto, da terra, è possibile osservare solo nel vicino e medio infrarosso, tra i 0,8 e i 20 micron di lunghezza d’onda. Infatti, ad alta quota, oltre i 2000 metri, la radiazione di questo tipo è solo parzialmente assorbita dall’atmosfera. Per osservare nel lontano infrarosso, fino a 100 anche 200 micron, è necessario andare molto più in alto, abbastanza in alto da uscire dall’atmosfera. Per godere di tutto lo spettro dell’infrarosso, raggiungendo una sensibilità anche mille volte superiore rispetto agli strumenti a terra, sono stati progettati e lanciati satelliti con a bordo i telescopi: in questo modo è possibile osservare l’universo direttamente dallo spazio, senza l’intralcio dell’atmosfera! I risultati ottenuti sono stati, ovviamente, incredibili e rivoluzionari sia per numerose aree dell’astronomia sia per lo sviluppo di nuove tecnologie. Ma partiamo dall’inizio. Tra i primi satelliti lanciati in orbita abbiamo IRAS (Infrared Astronomical Satellite) e ISO (Infrared Space Observatory). Il primo è stato lanciato nel 1983 ed è rimato in funzione per 10 mesi, fino alla totale evaporazione dell’elio liquido che serviva a raffreddarne la camera. In questo breve periodo, tuttavia, ha osservato circa 150000 stelle, 25000 galassie, un gran numero di nubi oscure e anche 5 comete. Il secondo, invece, è stato messo in orbita il 17 novembre del 1995 ed ha lavorato per quasi due anni. IRAS, in particolare è stato in grado di osservare anelli di polvere attorno ad alcune stelle come ad esempio Vega, la stella più brillante della costellazione della Lira, che potrebbero essere dei sistemi planetari in formazione. ISO, invece, ha identificato la presenza di abbondate vapor d’acqua intorno a stelle alla fine della loro vita. Tale vapore andrà ad arricchire le nubi di gas e polveri da cui si formeranno nuove stelle e pianeti. 

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Figura 3) Rappresentazione artistica del satellite IRAS

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Figura 4) Il satellite ISO

Oltre a queste incredibili scoperte, i due satelliti sono stati in grado di mostrarci le oscure profondità delle nubi di gas dove si formano le stelle, una sorta di “ecografie stellari”. La nascita di una stella è una delle fasi più misteriose della vita di questi astri. Sappiamo, per certo, che vengono generate all’interno di enormi e dense nubi di polveri e gas (prevalentemente idrogeno). Spesso, infatti, si osservano stelle pienamente formate ancora immerse in nubi di materia interstellare. Laddove non ci sono queste nubi non si osserva nemmeno la presenza di stelle, a riprova, quindi, che esse nascono all’interno di questi giganteschi agglomerati di gas e polveri. In seguito a perturbazioni esterne o per altri motivi, in realtà ancora poco chiari, in alcune zone di queste nubi può verificarsi che la materia si addensi formando delle “palle” di gas. Più questi condensati gassosi diventano grandi, più attireranno a sé altro materiale della nube. La forza di gravità, che tende a comprimere la materia della protostella, fa aumentare la pressione e, di conseguenza, anche la temperatura dell’astro in formazione. Densità e temperatura, ad un certo punto, sono abbastanza alte da innescare le prime reazioni di fusione nucleare. Gli atomi di idrogeno (che è il costituente base delle stelle) si fondono per formare atomi di elio, liberando quantità immense di energia: è nata una stella. Da qui in poi, quest’ultima entrerà in una fase di stabilità ed equilibrio (situazione in cui si trova il nostro Sole ad esempio) tra l’enorme pressione interna, generata dalle reazioni di fusione nucleare, che cerca di far espandere la stella, e la forza di gravità che, invece, tende a comprimerla. Tale fase, a seconda della massa, può durare milioni o, anche, miliardi di anni. Una volta consumato tutto l’idrogeno, la stella inizierà a fondere l’elio, formando atomi di carbonio che, reagendo con gli atomi di elio, formeranno nuclei di ossigeno fino ad arrivare alla creazione di nuclei di ferro. La stella, ormai nelle sue fasi finali, sempre in funzione della sua massa, può concludere la sua vita in modo lento e graduale, spegnendosi dolcemente, espandendosi e rilasciando progressivamente i suoi strati verso l’esterno oppure in modo estremamente violento, in un’esplosione la cui luminosità può facilmente superare quella di tutte le stelle della galassia in cui è avvenuta. Ciò che rimane dell’astro morente, le sue “spoglie”, può essere una nana bianca, una stella di neutroni o un buco nero. Delle fasi finali dell’evoluzione stellare, tuttavia ne parleremo più approfonditamente nei prossimi articoli. Ora ritorniamo alle nostre nubi oscure, alle nostre “nursery” stellari.

Queste sono estremamente fredde (hanno temperature vicine allo zero assoluto) e, quindi, non emettono luce visibile. Anche se al loro interno vi sono stelle in formazione, la loro luce è assorbita dai gas e dalle polveri da cui sono avvolte: sono scrigni oscuri che, tuttavia nascondono tra i tesori più luminosi dell’universo. La radiazione infrarossa riesce, però, ad attraversare questa oscurità, rendendo accessibile l’interno di questi scrigni apparentemente impenetrabili. I satelliti IRAS e poi ISO sono stati i primi a farci osservare direttamente le stelle in formazione nelle nubi interstellari. Hanno evidenziato, in particolare che nella stessa nube possono esserci sia stelle di piccola che di grande massa. Nelle nubi più grandi, inoltre, soprattutto verso il loro centro, vi è un’alta concentrazione di stelle estremamente grandi e massicce.

I successori di IRAS e ISO sono stati HERSCEL, SPITZER e il più recente JAMES WEBB TELESCOPE.

L’ HERSCHEL TELSCOPE è stata una missione dell’ESA (l’ente spaziale europeo) lanciata il 14 maggio 2009 e terminata il 29 aprile 2013, quando il telescopio ha esaurito le sue riserve di elio liquido necessarie per raffreddare la strumentazione. Esso prende il nome dall’astronomo William Herschel, scopritore della radiazione infrarossa, che abbiamo conosciuto nel precedente articolo. Il telescopio aveva uno specchio principale di 3,5 metri di diametro, in configurazione Cassegrain e disponeva di tre camere sensibili all’infrarosso tenute, dall’elio liquido, ad una temperatura di due gradi sopra lo zero assoluto (2 gradi Kelvin).

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Figura 5) Il satellite Herschel.

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Figura 6) Lo specchio principale di Herschel. Come spesso accade con i moderni telescopi spaziali, è uno specchio che si “dispiega”, si apre, quando il satellite è giunto in orbita.

Il telescopio Herschel, nei suoi anni di attività, ha fornito agli astronomi un’enorme mole d’informazioni e dati. Tra i principali scopi della missione vi erano: l’osservazione e lo studio della formazione ed evoluzione delle galassie primordiali, lo studio della nascita delle stelle e delle nubi interstellari, esaminare la composizione chimica di comete, asteroidi e pianeti extra-solari, studiare la chimica molecolare dell’universo. Riguardo lo studio delle galassie primordiali, è doveroso aprire una piccola parentesi riguardo l’importanza di osservare regioni molto distanti dell’universo tramite la radiazione infrarossa. Come abbiamo visto nel precedente articolo (I CANTASTORIE DEL COSMO – ATTO II – LE MICROONDE), il nostro universo non è statico ma in continua espansione. Tutte le galassie, per questo motivo, si allontanano l’una dalle altre secondo la legge di Hubble e più guardiamo lontano più la velocità di allontanamento aumenta. Quando un oggetto si allontana da noi, la luce che emette subisce uno strano fenomeno che, tuttavia, come vedremo, ci dovrebbe essere abbastanza familiare, chiamato “spostamento verso il rosso” o “redshift”. Quando ci passa davanti un’ambulanza, il suono delle sue sirene diviene sempre più debole man mano che quest’ultima si allontana da noi. La lunghezza d’onda o frequenza delle onde sonore emesse dalla sirena è sempre la stessa ma, dato che rispetto a noi l’ambulanza si sta allontanando, le percepiamo più deboli come se si fossero “allungate”. Questo fenomeno è chiamato “Effetto Doppler” che consiste, quindi, nel cambiamento apparente della frequenza di un’onda emessa da una sorgente in movimento rispetto all’osservatore che percepisce l’onda.

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Figura 7) Rappresentazione dell’effetto Doppler. L’osservatore, rispetto al quale l’ambulanza si allontana, percepirà onde con frequenza minore e, quindi, un suono via via più debole. L’osservatore, rispetto al quale l’ambulanza si sta avvicinando, percepirà, invece, onde con frequenza maggiore e, quindi, un suono sempre più forte.

Accade la stessa cosa con le sorgenti astronomiche, con la differenza che qui abbiamo onde luminose e non onde sonore. Dato che le galassie si allontanano da noi, la loro luce ci arriva con una lunghezza d’onda maggiore (e frequenza minore) e, quindi, spostata verso il rosso che, come abbiamo visto, è la banda dello spettro visibile con frequenza minore. Per galassie molto lontane, le quali si allontanano da noi con velocità estremamente grandi, il redshift è talmente elevato che la loro luce si “allunga” tanto da giungere fino a noi sotto forma di radiazione infrarossa (che infatti ha una lunghezza d’onda maggiore della luce visibile). Ed è per questo motivo che telescopi come Herschel sono fondamentali per lo studio delle galassie primordiali, incredibilmente distanti da noi nel tempo e nello spazio. La luce di queste galassie, che ci arriva sotto forma di infrarossi a causa dell’espansione dell’universo, ci sarebbe completamente invisibile se ci limitassimo ad osservare solo nell’ottico. Herschel è stato in grado di osservare una galassia, ad altissimo redshift, nata solo 880 milioni di anni dopo il Big Bang, che è un periodo temporale irrisorio confrontato con l’età attuale dell’universo di quasi 14 miliardi di anni! Altre scoperte degne di nota di Herschel sono state l’identificazione di numerose nubi e filamenti gassosi dove, al loro interno, avviene un’intensa attività di formazione stellare; ha trovato la presenza di molte molecole dando un contributo fondamentale all’analisi chimica del mezzo interstellare; la scoperta di svariati dischi protoplanetari al cui interno è stato identificato anche vapore acqueo.

Il 25 agosto 2003, circa 6 anni prima di Herschel, era stato lanciato un altro importante telescopio per l’osservazione infrarossa: il TELESCOPIO SPITZER. Prende il nome da Lyman Spitzer, uno dei più influenti astrofisici del XX secolo. Il telescopio è nato da una collaborazione tra NASA, JET PROPULSION LABORATORY e il California Institute of Technology. La missione doveva, secondo le previsioni, durare circa due anni e mezzo, fino all’esaurimento delle scorte di elio liquido. Grazie, tuttavia all’efficienza della strumentazione, la missione principale è durata ben cinque anni. Esaurito il liquido di raffreddamento, mentre parte della strumentazione era ormai inutilizzabile, le camere per l’osservazione nel vicino infrarosso sono rimaste attive prolungando la missione fino al 2020.

La nuova vita del telescopio spaziale Spitzer - Focus.it

Figura 8) Il telescopio Spitzer

Gli scopi principali della missione, simili a quelli di Herschel, erano lo studio della formazione stellare e del mezzo interstellare, planetologia e osservazione di galassie primordiali. Tra le numerose scoperte fatte da Spitzer, una delle più incredibili è sicuramente l’osservazione diretta, per la prima volta, di due pianeti extra-solari: i giganti gassosi HD 209458 b e TrES-1b. Come suggerisce il nome, un pianeta extra-solare è un pianeta che orbita intorno ad un’altra stella. Questi oggetti sono estremamente difficili da osservare in quanto sono corpi freddi e “piccoli” (sempre in relazione ad altri oggetti astronomici come stelle e galassie). Gli astronomi erano a conoscenza della loro esistenza solo grazie a misure indirette. Grazie al telescopio Spitzer siamo riusciti ad osservare la prima luce “diretta” di questi mondi extraterrestri.

Infine, l’ultimo grande telescopio ad infrarossi lanciato in orbita è il JAMES WEBB TELESCOPE. Dopo diversi rinvii a causa di problemi tecnici, finalmente il 25 dicembre 2021 il telescopio è stato con successo lanciato in orbita, ad una distanza di più di un milione di chilometri dalla superficie terrestre. WEBB, grazie ad un livello tecnologico mai raggiunto con altri telescopi spaziali e al suo enorme specchio primario di ben 6,5 metri di diametro, ha già superato il lavoro del suo predecessore, il telescopio Hubble, e sta continuamente aprendo nuove finestre sull’universo. L’ultima spettacolare immagine prodotta da WEBB (quando è stato scritto questo articolo) è una dettagliatissima foto della nebulosa M57 o nebulosa Anello, nella costellazione della Lira.

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Figura 9) Schema della struttura del JAMES WEBB TELESCOPE

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Figura 10) La nebulosa anello, nell’infrarosso, immortalata dal James Webb.

Webb ci ha rivelato, grazie all’altissima risoluzione delle sue camere, dettagli mai visti della nebulosa come diverse strutture concentriche presenti nell’anello esterno. L’analisi dei dati ha, inoltre evidenziato la presenza, sempre all’interno dell’anello esterno, di molecole complesse di carbonio. 

Siamo giunti alla fine del nostro terzo viaggio nell’astronomia multimessaggera. Come abbiamo visto, la radiazione infrarossa ci ha permesso di ascoltare storie di un universo completamente nuovo e sconosciuto. Tutto è partito da un uomo particolarmente curioso e brillante che provò a misurare il calore trasportato dalle bande luminose dello spettro luminoso. Grazie a quel semplice esperimento, circa 200 anni dopo, siamo stati in grado di sbirciare all’interno delle nubi in cui si formano le stelle, individuare oggetti freddi e oscuri altrimenti invisibili, ricevere in modo diretto la luce di pianeti extra-solari, individuare nuove molecole nel mezzo interstellare e osservare galassie lontanissime formatesi all’alba dell’universo. Il James Webb Telescope, che è ancora all’inizio della sua missione, ci ha già fornito uno sguardo completamente nuovo sull’universo e in futuro sicuramente sarà in grado di raccontarci storie ancora più interessanti ed incredibili ampliando ancora di più la nostra conoscenza del cosmo. 

A cura di Giuseppe

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