Nei precedenti articoli abbiamo imparato a conoscere tipi di “luce” o radiazione elettromagnetica invisibili ai nostri occhi la cui scoperta ha aiutato l’umanità a progredire in numerosi ambiti tecnologici e che, soprattutto, ha consentito a fisici e astronomi di avere uno sguardo totalmente nuovo sull’universo. C’è, tuttavia, un tipo di radiazione che possiamo percepire in continuazione tenendo semplicemente aperti i nostri occhi e che è stata, per gran parte della storia umana, il mezzo principale tramite il quale osservare e studiare il mondo. Stiamo parlando, ovviamente, della Luce visibile, il nostro nuovo cantastorie.
La Luce visibile, come ad esempio quella che ci arriva ogni giorno dal Sole oppure quella emessa da una lampadina, è un tipo di onda elettromagnetica a cui i nostri occhi sono sensibili, a differenza degli altri tipi di radiazione. All’interno dello spettro elettromagnetico, come si può vedere in Figura 1, la radiazione visibile si trova tra gli infrarossi e i raggi ultravioletti. In particolare, la Luce presenta un range di lunghezze d’onda o frequenze che vanno da 390 a 760 nm (nanometri). Come abbiamo visto nel precedente articolo con l’esperimento del prisma condotto da Newton, la Luce è composta, in realtà, dai colori dell’arcobaleno, che se combinati restituiscono la luce bianca. Ogni colore ha la sua lunghezza d’onda caratteristiche: quelli verso il rosso hanno lunghezza d’onda maggiore (e quindi frequenza minore) mentre, quelli verso il violetto hanno lunghezza d’onda minore (e quindi frequenza maggiore). La porzione di spettro che occupa la Luce, come si vede sempre in Figura 1, è molto piccola, soprattutto se confrontata con gli altri tipi di onde. Tuttavia, il fatto di poter percepire la realtà tramite questo limitato range di frequenze ha permesso all’uomo di sopravvivere e arrivare dov’è oggi. Senza il senso della vista, o comunque con una visione diversa rispetto a quella di cui disponiamo, la nostra storia sulla Terra sarebbe stata, sicuramente, radicalmente diversa.
Figura 1) La Luce visibile si colloca, all’interno dello spettro elettromagnetico, tra gli infrarossi e i raggi UV.
Prima di addentrarci nella storia degli studi sulla Luce ( da qui in poi ci si riferirà alla Luce visibile solo con il termine “Luce”), argomento che ha appassionato e accesso la curiosità d’innumerevoli uomini di scienza di ogni epoca, volti a scoprirne la natura ultima e di come gli astronomi la utilizzano per osservare e “ascoltare” l’universo, penso sia pertinente e, soprattutto, interessante dedicare qualche riga di quest’articolo al funzionamento della vista e a come il nostro occhio ci permette di percepire la radiazione luminosa.
Per raccogliere la maggior parte delle informazioni sul mondo che ci circonda, l’uomo si basa fondamentalmente sulla vista. Con un singolo sguardo verso un qualsiasi oggetto possiamo facilmente valutarne dimensioni, distanza da noi, consistenza e molte altre caratteristiche. Circa il 70% dei recettori sensoriali si trova, infatti, negli occhi e invia le informazioni raccolte al cervello, che le analizza. L’occhio funziona in modo molto simile ad una macchina fotografica e, proprio come quest’ultima, presenta diverse “componenti”. La prima, partendo dall’esterno, è la cornea. Si tratta di una membrana trasparente che si trova sulla parte anteriore dell’occhio, la quale raccoglie e rifrange i raggi luminosi provenienti da qualunque oggetto si trovi nel nostro campo visivo. È una vera e propria lente (convessa), la più potente del nostro apparato visivo, con uno spessore di circa mezzo millimetro. Ciò che regola la quantità di luce che può entrare nell’occhio è, invece, la pupilla i cui movimenti sono controllati da due serie di muscoli, detti “circolari” e “radiali, presenti nell’iride, l’area colorata dell’occhio. In ambienti molto illuminati, per evitare che l’occhio rimanga abbagliato, mediante l’attivazione dei muscoli radiali, la pupilla si restringe mentre, in ambienti più bui e oscuri, grazie ai muscoli circolari, si allarga, facendo entrare più luce. In questo modo, l’occhio si adegua automaticamente all’illuminazione esterna, al fine di produrre sempre immagini chiare e nitide in qualunque condizione. I raggi luminosi continuano il loro viaggio all’interno dell’occhio incontrando un’altra lente: il cristallino. Situato dietro la cornea, è una lente elastica e trasparente, che varia automaticamente la sua forma tramite un processo detto di “accomodazione”, al fine di mettere a fuoco ciò che stiamo osservando. All’interno dell’occhio la luce, infine, giunge sul fondo oculare, creando un’immagine rovesciata su una membrana chiamata retina. In Figura 2 è possibile vedere uno schema della struttura dell’occhio e del cammino luminoso al suo interno.
Figura 2) Struttura dell’occhio.
La retina contiene oltre 126 milione di cellule nervose sensibili alla Luce. In particolare, ve ne sono di due tipi: i coni e bastoncelli, chiamati così per la loro forma. I primi, in numero nettamente minore rispetto ai bastoncelli, sono sensibili ai colori (è grazie a loro se disponiamo di una visione a colori) e si attivano se stimolati da luce intensa. I secondi, invece, pur essendo molto sensibili a qualunque tipo di Luce, non possono distinguere i colori e sono utilizzati principalmente per la visione notturna. I coni sono più numerosi in un’area della retina chiamata fovea che è il punto in cui la percezione visiva è più nitida.
Figura 3) Immagine estremamente dettagliata, ottenuta tramite microscopio elettronico, dei coni (in verde) e dei bastoncelli (in giallo).
Tali cellule reagiscono istantaneamente ai raggi luminosi, trasformando l’immagine in segnali elettrici, i quali vengono trasmessi al cervello tramite il nervo ottico. I centri encefalici responsabili dell’interpretazione visiva elaborano i “messaggi” luminosi e ci mostrano le immagini rovesciate nel senso corretto.
Dopo questa breve descrizione della struttura e funzionamento dell’occhio, possiamo, finalmente, iniziare il nostro viaggio alla scoperta della Luce. Nel corso della storia sono innumerevoli gli uomini che, anche in misura minima, hanno contribuito a condurre l’umanità nella direzione giusta verso una piena comprensione dei fenomeni luminosi. Molti dei loro nomi si sono inevitabilmente persi come gocce nell’oceano del tempo. Probabilmente già durante la Preistoria, gli uomini delle caverne osservavano continuamente e con stupore gli strani e apparentemente inspiegabili comportamenti che poteva assumere la Luce, senza ovviamente, capirne le motivazioni. Tuttavia, ciò che ha fatto sempre progredire in avanti l’uomo è la sua innata e ardente curiosità. Ed è forse stata proprio la curiosità di quei primi uomini ad innescare la scintilla che avrebbe poi accesso il fuoco delle grandi scoperte future. Facciamo, quindi, la conoscenza del nostro primo vero protagonista, il nostro primo “maestro della Luce”: Mozi o Mo-tze.
Figura 4) Mozi.
Vissuto più di 2000 anni fa, Mozi fu un grande filosofo e stratega cinese. Egli si rese conto che la Luce poteva essere utilizzata per formare immagini, realizzando la prima camera oscura della storia. Una camera oscura è il tipo più semplice di camera ottica: è il prototipo, l’antenato di tutte le moderne camere fotografiche. Non è altro che un qualsiasi ambiente, come una stanza o una scatola chiuse, ben oscurato in cui la luce proveniente dall’esterno può entrare solo tramite un piccolo forellino, detto foro stenopeico. Sulla parete opposta al forellino si formerà, così, un’immagine capovolta (e sempre più nitida via via che si riducono le dimensioni del forellino) di ciò che si trova davanti ad esso. Osservando la Figura 5 si può facilmente capire il funzionamento della camera oscura.
Figura 5) Una camera oscura: la luce entra dal foro stenopeico e forma un’immagine capovolta sulla parete opposto, quasi come se si stesse proiettando un film.
Mozi, quindi, fu il primo a mostrare che la Luce può formare delle immagini. A noi potrà sembrare banale ma, per l’epoca, si trattava di qualcosa di assolutamente straordinario e mai visto prima. Oltre ai suoi esperimenti sull’utilizzo della luce, Mozi si distinse anche per le sue capacità in campo militare e per la sua filosofia straordinariamente moderna. Come stratega usò sempre le sue abilità per prevenire l’utilizzo della violenza: viaggiò per gli stati in guerra ideando geniali strategie al fine di porre fine ai conflitti in corso. Come filosofo cercò di diffondere un pensiero basato sull’autoriflessione e l’autenticità piuttosto che sull’obbedienza e sulla fede cieca ai rituali. Ogni cosa andava analizzata e verificata, quasi una sorta di prototipo del moderno metodo scientifico. Dopo Mozi, circa mille anni dopo, nella città di Bassora in Iraq, troviamo il nostro secondo maestro della Luce, fisico, astronomo, matematico, filosofo e medico, una delle più grandi menti del mondo arabo e della storia: Alhazen. Dotato di un’ardente passione e curiosità per tutto ciò che riguardava i fenomeni naturali, concentrò le sue ricerche soprattutto sullo studio della Luce e sul funzionamento della vista, scrivendo un monumentale trattato di ottica in sette volumi. Alhazen, infatti, è universalmente considerato il padre dell’ottica moderna. All’epoca si pensava che la Luce partisse dagli occhi dell’osservatore, colpisse l’oggetto che si stava guardando e ritornasse indietro fornendone, così, l’immagine. Lo scienziato, tuttavia, si rese conto che c’erano corpi, come ad esempio le stelle, fin troppo distanti affinché i raggi luminosi percorressero tutto quel cammino in modo istantaneo, in appena un battito di ciglia: la vista e la Luce dovevano funzionare in qualche altro modo. Alhazen volle, quindi, testare le sue idee sul comportamento della Luce. Costruì anch’egli una camera oscura: eresse una tenda, il cui interno era ben oscurato, esposta alla piena luce del giorno e con un piccolo forellino da cui poteva passare solo un sottile fascio luminoso. Armato di righello, misurò accuratamente l’inclinazione con cui si propagavano i raggi. Alla fine, concluse che la Luce si muove in linea retta, una delle più grandi scoperte della storia della scienza. Ed è proprio per questo motivo che nella camera oscura si formano immagini rovesciate: la Luce emessa dalla parte superiore dell’oggetto di cui si vuole proiettare l’immagine, viaggiando solo in linea retta e potendo passare solo attraverso un foro molto piccolo, apparirà in basso mentre, la Luce emessa dalla parte inferiore apparirà in alto, formando, così, una figura capovolta (si veda sempre lo schema dei raggi luminosi in Figura 5). Ma Alhazen non si fermò di certo qui: il suo genio andò ben oltre. Studiano la struttura dell’occhio si rese conto che quest’ultimo si comporta in modo incredibilmente simile ad una camera oscura: la pupilla corrisponde al foro stenopeico da cui può entrare la luce e l’interno dell’occhio, invece, corrisponde all’interno della camera oscura. La pupilla, grazie alle sue piccole dimensioni, fa entrare solo la quantità giusta di Luce per fornirci una visione sempre chiara e nitida. Lo scienziato, ipotizzò, quindi, che sul fondo dell’occhio, proprio come avviene con la camera oscura, si crea un’immagine rovesciata di ciò che stiamo osservando e, in qualche modo, il cervello la capovolge facendoci osservare il mondo nel senso corretto. Come abbiamo visto prima studiando le caratteristiche dell’occhio, Alhazen aveva sorprendentemente ragione: nonostante fosse vissuto più di mille anni fa, con nessuna delle tecnologie moderne, fece scoperte rivoluzionarie che lo resero uno degli uomini di scienza più importanti della storia.
La camera oscura va bene per proiettare immagine alla piena luce del giorno. La stessa cosa non si può fare, invece, di notte con la debole luce delle stelle. Per avere immagini più grandi, nitide e dettagliate dei corpi che popolano la volta celeste era necessario molto più di un piccolo forellino in una tenda. Facciamo, così, un salto nel tempo e nello spazio: siamo a Venezia, nel 1609. Introduciamo, quindi, l’ultimo protagonista e maestro della luce di questa prima parte della nostra storia, il padre dell’astronomia moderna: Galileo Galilei.
Figura 6) Galileo Galilei.
Galileo, per osservare la debole Luce proveniente dal cielo notturno, ideò un prototipo di telescopio, più precisamente un cannocchiale. Uno strumento simile, tuttavia, era già stato realizzato da Hans Lippershy, un ottico tedesco. Galileo utilizzò un tubo di piombo alle cui estremità inserì due lenti, una convessa e l’altra concava.
Figura 7) Riproduzione del cannocchiale di Galileo.
Figura 8) Schema ottico del cannocchiale di Galileo.
Tale schema ottico, ovviamente, non era una scelta casuale: la lente convessa (lente obiettivo, vedi Figura 8), situata nella parte superiore del tubo, ha il compito di raccogliere e convergere la Luce in entrata verso la lente concava (lente oculare, vedi Figura 8), situata nella parte inferiore del tubo da cui si osserva, che a sua volta dirige i raggi luminosi verso l’occhio dell’osservatore. Com’è facilmente intuibile questo schema ricorda, ancora una volta, quello del nostro occhio. Tuttavia, qui l’apertura da cui può entrare la luce è molto più grande di quella della nostra pupilla che ha un diametro di pochi millimetri: in questo modo, si possono percepire dettagli di oggetti anche molto distanti, impossibili da osservare con la semplice vista. Quando, infatti, Galileo rivolse per la prima volte il suo cannocchiale verso il cielo notturno gli si aprì una porta completamente nuova sull’universo mai varcata da nessuno fino ad allora. Osservò che c’erano molte più stelle di quelle visibili ad occhio nudo giungendo alla conclusione che il cosmo era molto più grande di quanto si pensasse. La superficie lunare non era affatto liscia e levigata bensì ruvida e frastagliata: la Luna non era un corpo perfetto e non c’era differenza con Terra. Infine, scoprì quattro dei satelliti di Giove, i più luminosi: Io, Europa, Callisto e Ganimede. Tutt’oggi ci si riferisce a questi oggetti come satelliti medicei o galileiani. Quel piccolo e rudimentale telescopio, in grado di far osservare e “ascoltare” l’universo a Galileo in un modo mai visto prima, fu l’ennesima scintilla che ci ha portato dove siamo oggi, con enormi e avanzatissimi telescopi e una maggiore comprensione della Luce e delle storie che porta con sé. Ma c’è ancora molto da raccontare.
Ci vediamo fra due settimane con la seconda parte.
A cura di Giuseppe
Fonti:
– Cosmos, Stagione 1 – Episodio 5
– Margherita Hack, L’universo del terzo millennio