Continuiamo il nostro viaggio alla scoperta della radiazione ultravioletta. In questa seconda e ultima parte parleremo della strumentazione ideata nel corso degli anni che ci ha permesso di osservare l’universo tramite l’ultravioletto e quali sono le informazioni, le “storie” più importanti e interessanti che questo tipo di onda ci può raccontare sull’universo.
Innanzitutto, per gli astronomi essere in grado di osservare e “ascoltare” l’universo ultravioletto è estremamente utile. Uno dei motivi principali è che l’elemento più abbondante presente nel cosmo è l’idrogeno. Quest’ultimo, il primo della tavola periodica, è una componente fondamentale delle stelle e del mezzo interstellare. Tra il 1906 e il 1914, presso i laboratori di Harvard, il fisico americano Theodore Lyman scoprì che l’idrogeno atomico, la forma base di questo elemento costituita da un protone e un elettrone, poteva emettere radiazione ultravioletta a determinate lunghezze d’onda. Il motivo di ciò, senza entrare troppo nel dettaglio, dato che per una spiegazione completa bisognerebbe scomodare la meccanica quantistica, è che l’idrogeno può assorbire determinati livelli di energia, per esempio se stimolato da una corrente elettrica o colpito da onde elettromagnetiche, e riemetterla sotto forma di radiazione ultravioletta. Come detto prima, esso è l’elemento chimico più abbondante dell’universo e, quindi, essere in grado di rilevare le linee di emissione nell’ultravioletto dell’idrogeno nei corpi celesti che popolano il cosmo è fondamentale per comprendere il comportamento di stelle e galassie.
I primi tentativi di osservare la radiazione ultravioletta delle stelle furono fatti tramite piccoli telescopi a bordo di razzi, tra il 1966 e 1969. Il primo satellite per l’ultravioletto fu lanciato dalla NASA nel dicembre del 1968, chiamato Orbiting Astronomical Observatory No.2 (il numero uno finì sfortunatamente sul fondo dell’oceano) o OAO 2. Il primo satellite europeo, invece, fu il TD1, lanciato nel marzo del 1972. Il primo grande telescopio spaziale per le osservazioni nell’ultravioletto fu l’OAO 3 o COPERNICUS, messo in orbita dalla NASA il 21 agosto 1972, dotato di uno specchio di 80 cm di diametro. Nel gennaio 1978, fu messo in orbita l’Internetional Ultraviolet Explorer o IUE. Il telescopio aveva un diametro di 45cm (circa la metà del COPERNICUS) ma era dotato di un dispositivo che lo rendeva molto più rapido. La missione è durata ben 19 anni durante i quali ha compiuto più di 104000 osservazioni. L’IUE era operativo, nel 1986, durante il passaggio della cometa di Halley e fu utilizzato per determinare con estrema precisione la quantità di vapore acqueo perso dall’oggetto nel mentre si avvicinava al Sole.

Altri telescopi spaziali specializzati nell’osservazione ultravioletta sono stati il Far Ultraviolet Spectroscopic Explorer o FUSE e il Galaxy Evolution Explorer o GALEX. Il primo è stato attivo tra il 1999 e il 2007, e aveva come missione principale quella di rilevare il deuterio (un isotopo dell’idrogeno), invisibile tramite l’osservazione ottica, nelle vicinanze della nostra galassia. I suoi prolifici anni di attività hanno portato la stesura di più di 400 articoli scientifici sull’osservazione del deuterio, lo studio delle proprietà delle atmosfere e dei venti stellari e l’analisi di pianeti extrasolari. Il secondo, invece, attivo tra il 2003 e il 2013, dotato di una camera a larghissimo campo, aveva l’obiettivo di mappare l’intera galassia negli ultravioletti.


Per concludere questa panoramica sugli strumenti per l’osservazione ultravioletta, anche se celebre per le sue incredibili immagini nell’ottico, anche il telescopio Hubble, ora “in pensione”, è stato dotato, nel corso degli anni, di tre spettrografi per la visione UV. Infatti, uno dei suoi obiettivi di ricerca primari era quello di compiere osservazioni e fare spettroscopia degli oggetti astronomici tramite la radiazione ultravioletta.
Passiamo ora alla descrizione di alcune delle principali scoperte rese possibili grazie all’osservazione UV, le nostre nuove storie cosmiche.
Per iniziare, l’astronomia ultravioletta è stata fondamentale per lo studio del Sole. In particolare, si è riusciti a capire approfonditamente le caratteristiche della Corona solare. Essa rappresenta la parte più esterna dell’atmosfera del nostro Sole. Per motivi ancora poco chiari, la Corona è estremamente calda, molto più calda anche della fotosfera (la superficie solare). Sono, infatti, raggiunte temperature di oltre un milione di gradi Kelvin. In queste condizioni, gli atomi vengono fortemente ionizzati (perdendo elettroni) ed emettono proprio radiazione UV. Tramite l’osservazione ultravioletta del Sole si è scoperto che la Corona non ha una composizione uniforme ma presenta dei “buchi”, zone in cui è meno densa, da cui può fuoriuscire il vento solare. Esso è costituito da particelle cariche, principalmente da elettroni e protoni, è il responsabile delle aurore, può interferire con le comunicazioni terrestri e può danneggiare i rivestimenti delle sonde spaziali. Lo studio dell’evoluzione strutturale della Corona, unito al monitoraggio dell’attività del vento solare, permette agli scienziati di avere una sorta di “bollettino meteo” del Sole.

L’osservazione nell’ultravioletto risulta molto utile anche per lo studio dei pianeti, sia interni al nostro Sistema Solare che extrasolari. Ad esempio, sono state osservate aurore polari, principalmente sui pianeti gassosi e, particolarmente intense e spettacolari, su Giove e Saturno. Dato che le atmosfere di questi pianeti sono ricche d’idrogeno, le aurore non sono visibili nell’ottico ma perfettamente osservabili all’ultravioletto. Come si può vedere nelle spettacolari immagini riportate sotto, Figura 5 e Figura 6, entrambe scattate dal telescopio Hubble, le aurore, situate ai poli settentrionali dei rispettivi pianeti, li cingono come corone fluorescenti (ovviamente sono in falsi colori). In particolare, queste immagini sono state prodotte sovrapponendo la foto nell’ottico dei pianeti con quella nell’ultravioletto delle aurore (immagini composite).


Ovviamente, oltre all’idrogeno, ci sono anche altri elementi e composti chimici che possono emettere radiazione ultravioletta. Su Io, la luna più vicina a Giove, grazie alla rilevazione di emissioni UV dell’anidride solforosa, si è dedotto che è presente, sul satellite, attività vulcanica. Passando ai pianeti extrasolari, gli astronomi riescono a capire la composizione chimica delle loro atmosfere grazie al fatto che gli elementi e i composti che le costituiscono assorbono la luce proveniente dalla stella attorno a cui orbitano e la riemettono sotto forma sempre di radiazione elettromagnetica a determinate lunghezze d’onda. Analizzando la luce emessa dal pianeta si può risalire alle sue caratteristiche chimiche e strutturali. Con l’osservazione ultravioletta, è stato scoperto che alcune classi di pianeti gassosi detti “caldi”, con massa simile a quella di Giove, Urano e Nettuno, presentano una massiccia perdita di idrogeno dalle loro atmosfere, anche di 10000 tonnellate al secondo. Le stesse osservazioni sono state compiute anche su pianeti caldi della massa simile alla Terra, senza però trovare questo comportamento. Questo perché, essendo più piccoli e, quindi, con una forza di gravità minore, hanno già perso tutto l’idrogeno. Un’altra applicazione fondamentale degli UV è lo studio delle stelle estremamente calde. Infatti, più un oggetto è caldo più il suo picco di emissione sarà spostato verso lunghezze d’onda più corte o, equivalentemente, verso frequenze maggiori. Di particolare interesse, in quest’ambito, sono le nane bianche. Esse rappresentano una delle possibili fasi in cui si può concludere la vita di una stella. Si tratta di ciò che rimane di una stella di medie dimensioni, come ad esempio il nostro Sole, la quale ha espulso ormai tutto il suo materiale gassoso più esterno e che, come un guscio, avvolge il cuore della stella, ovvero, una nana bianca. Sono oggetti molto compatti e, soprattutto, caldi. La temperatura superficiale può raggiungere i 100000 gradi Kelvin. Le nane bianche, tuttavia, essendo molto piccole, emettono poca radiazione e solo una piccola parte di essa è nello spettro visibile. Sono, quindi, molto elusive nell’ottico ma osservabili molto meglio nell’ultravioletto. Il telescopio IUE, citato prima, in particolare, ne ha individuate molte scoprendo, inoltre, che diverse sono compagne di altre stelle in sistemi multipli.

Estendendo la visione ultravioletta dalle singole stelle alle galassie intere, è possibile facilmente individuare le stelle calde e stelle massicce in formazione, immerse in nubi di gas, le quali emettono fortemente nell’ultravioletto. Le immagini in Figura 8 mostrano la differenza tra l’osservazione nell’ottico (in rosso) e con gli UV (in blu) di tre galassie. Le immagini nel visibile permettono di osservare maggiormente stelle più antiche di colore rosso o giallo. L’osservazione nell’ultravioletto, invece, permette di individuare stelle più giovani e calde, di colore blu o azzurro, o, come detto prima, stelle di grandi dimensioni in formazione, immerse nelle nubi di gas in cui stanno nascendo.


Siamo giunti alla fine di quest’ulteriore viaggio nell’astronomia multimessaggera. I nostri cantastorie, gli ultravioletti, hanno permesso agli astronomi, ancora una volta, di osservare un universo invisibile e ascoltarne le storie, dal “meteo” solare alla composizione delle atmosfere di lontani pianeti extrasolari fino alla scoperta di piccole ed elusive nane bianche, cuori di stelle alla fine della loro vita.
A cura di Giuseppe Lamberti
BIBLIOGAFIA
- Multimessanger astronomy, John Etienne Beckman
- L’universo nel terzo millennio, Margherita Hack
- https://science.nasa.gov/ems/10_ultravioletwaves/
- https://www.media.inaf.it/2018/08/31/aurora-boreale-su-saturno/