Nel 1933, in casa DC comics, dalle menti di Jerry Siegel e Joe Shuster, nasce il supereroe che sarebbe diventato il più iconico e famoso della storia moderna: Superman, il cui alter ego è Clark Kent, un alieno inviato sulla Terra dai genitori per salvarlo dalla distruzione del suo pianeta natale, Krypton. La storia del nostro giornalista d’acciaio, tra fumetti, serie TV e film, penso sia nota un po’ tutti, come sicuramente sono noti i suoi poteri principali, ormai entranti nell’immaginario collettivo e immediatamente associati al personaggio, come la super-forza, il volo, l’invulnerabilità, il soffio congelante e la vista a raggi X, la quale gli permetteva di guardare attraverso gli oggetti, con l’eccezione di quelli rivestiti in piombo. Non è raro che scienza e storie fantasy e sci-fi s’influenzino notevolmente a vicenda. Parlando di Superman, la storia e le caratteristiche fisiche del nostro uomo d’acciaio offrono numerosi spunti scientifici. Per citarne alcuni: pianeti extra-solari, viaggio interstellare, immaginare la genetica e la biologia di un corpo con quelle capacità sovraumane, spiegare da un punto di vista fisico i suoi poteri e molte altre tematiche che, negli anni, hanno intrigato e affascinato gli scienziati “nerd” e gli appassionati di tutto il mondo. In questo articolo ci occuperemo, da un punto di vista fisico e astronomico, dei Raggi X. Prenderemo in prestito la vista di Superman e cercheremo di capire cosa significa osservare il mondo tramite questo nuovo tipo di radiazione elettromagnetica e come la sua scoperta ed utilizzo in svariati ambiti, tra cui la medicina e, ovviamente, l’astronomia, abbia permesso un eccezionale passo in avanti al progresso umano.
Iniziamo questo nuovo viaggio nell’astronomia multimessaggera facendo la conoscenza dello scopritore dei nostri cantastorie: Wilhel Röntgen. Quando scoprì i raggi X, Röntgenaveva cinquant’anni. Era nato a Lennep, in Germania, figlio unico di Friedrich Conrad Röntgen, un commerciante di tessuti, e Charlotte Constanze Frowein, di famiglia olandese. Quando Wilhelm aveva tre anni, i Röntgen migrarono ad Apeldoorn, in Olanda, dove il loro figlio avrebbe frequentato l’Instituut van Martinus Herman van Doorn, il collegio in cui sviluppò il suo amore per la meccanica. Nel 1862 si iscrisse all’istituto tecnico di Utrecht, ma dopo un anno fu espulso: era stato ingiustamente accusato di aver disegnato la caricatura di un insegnante, e non volle dire il nome del responsabile. Provò a conquistare il diploma studiando privatamente ma il giorno dell’esame si trovò di fronte uno dei professori che lo avevano fatto espellere e non superò la prova. Non poté, così, iscriversi all’università della città ma cominciò comunque a frequentarla come ospite nel 1865. Nel frattempo, scoprì che al prestigioso Politecnico di Zurigo era invece possibile accedere anche senza diploma, a patto di superare un esame di ammissione. Proprio in quell’istituto, passato il test, Wilhelm si laureò in ingegneria meccanica nel 1868 e conquistò il dottorato nel 1869 con una tesi sui gas. Sotto l’ala protettiva del professor August Kundt, Röntgen cominciò la sua carriera universitaria, accettando incarichi in diverse università tedesche, fino a stabilirsi definitivamente a Würzburg nel 1888, dopo aver ottenuto una cattedra in fisica all’università della città.

L’8 novembre 1895, Röntgen stava lavorando con untubo di Crookes, un apparecchio che si può considerare il precursore del tubo catodico dei televisori: è una particolare ampolla di vetro a forma di cono collegata a una pompa per creare il vuoto e al cui interno sono sistemate due piastre metalliche, chiamate elettrodi (anodo e catodo), ciascuna collegata a un generatore elettrico. Quando il gas all’interno del tubo è sufficientemente rarefatto, il flusso di elettricità provoca emissione di luce. Riducendo ulteriormente la pressione del gas, e cioè rendendo il vuoto ancor più spinto, l’emissione di luce cessa e si può osservare una macchia fluorescente sulla parete di vetro di fronte al catodo. La fluorescenza prodotta dall’apparecchio è dovuta ai raggi catodici. Allora nessuno sapeva che erano fasci di particelle chiamate elettroni, accelerati dalla corrente dal catodo verso l’anodo. Molti materiali colpiti da una radiazione si eccitano riemettendo altre radiazioni, ed era proprio questo ciò che succedeva nel tubo quando gli elettroni accelerati oltrepassavano gli elettrodi e colpivano la parete di vetro (vedi Figura 2). Quel giorno, però, Röntgen scoprì l’esistenza di una radiazione sconosciuta: i raggi X, appunto.

Come molti colleghi, Röntgen voleva capire di più sulla natura dei raggi catodici. Poco tempo prima, il fisico tedesco Philip Lenard aveva provato che potevano anche uscire dal tubo, attraverso una sottile finestra di alluminio, ed essere rilevati su uno schermo ricoperto di una sostanza fluorescente poco distante. Röntgen ripropose l’esperimento in una stanza, però, completamente buia, e avvolse il tubo con cartoncino nero, in modo che la luce non potesse uscire. Con sua sorpresa, vide illuminarsi una lastra fluorescente a qualche metro di distanza, fuori dalla portata di qualsiasi raggio catodico. In seguito, i dettagli di questa scoperta casuale sarebbero stati raccontati in molti modi. Una delle leggende più celebri racconta che in quel momento, appoggiato alla lastra fluorescente nel laboratorio, ci fosse un libro. Spostando la lastra, con sua sorpresa Röntgen avrebbe trovato in quel punto la sagoma di una chiave, chiave rinvenuta poi effettivamente dallo scienziato all’interno delle pagine del libro.
Dopo quel fatidico 8 novembre 1895, Röntgen passò settimane in laboratorio, ma alla fine di dicembre pubblicò il suo primo articolo scientifico in merito. La notizia viaggiò velocemente, tanto nel mondo scientifico che sulla carta stampata. Allora non si sapeva ancora che cosa fossero questi raggi, che oggi sappiamo essere prodotti dall’impatto delle particelle, sufficientemente accelerate dalla corrente, che “strappano” elettroni ad alta energia dagli atomi che colpiscono. Le loro proprietà però lasciavano già a bocca aperta chiunque. D’altronde, attraversavano senza problemi alcuni materiali, come la carta, il cartone, la pelle, mentre non riuscivano ad oltrepassarne altri, come il piombo. Essendo la tecnologia per generare i raggi X (i tubi di Crookes) già disponibile in molti laboratori, ben presto furono realizzati dispositivi portatili che producevano raggi X. All’industrializzazione di questi dispositivi partecipò anche Thomas Edison.
La prima, celebre, immagine radiografica della storia fu quella della mano sinistra di Anna Bertha Ludwig, la moglie del fisico: si vedevano chiaramente le ossa delle dita e l’anello matrimoniale (vedi Figura 3).

L’enigmatica radiazione entrò ben presto a far parte dell’immaginario e dell’immaginazione popolare: sui giornali comparvero racconti fantascientifici sulla misteriosa radiazione, aprirono studi che offrivano la possibilità di fare “ritratti delle ossa”, fu pubblicizzata biancheria intima di piombo che avrebbe garantito protezione da inesistenti occhiali ai raggi X.

Nel 1901, Wilhelm ricevette il premio Nobel in fisica «in riconoscimento degli straordinari servizi che ha reso con la notevole scoperta dei raggi X». Quando gli chiesero cosa avesse pensato al momento della scoperta, rispose placidamente: «Non stavo pensando, stavo investigando!». Notoriamente timido, poco incline alla pubblicità, Wilhelm non approfittò in alcun modo della sua scoperta: non la brevettò, donò l’assegno del premio Nobel alla sua Università e non accettò alcun onore o riconoscimento ufficiale, se non la laurea ad honorem in medicina conferitagli dalla sua Università. Voleva che tutti potessero beneficiare gratuitamente degli effetti della sua scoperta.

A partire dal 1896, subito dopo la prima pubblicazione, gli articoli scientifici sul tema si fecero numerosi. Tutto il mondo voleva scoprire quello che i raggi X potevano fare. In particolare, la comunità medica riconobbe immediatamente l’importanza della scoperta di Röntgen. Fu proprio in questa fase di sperimentazione serrata che ci si accorse che i raggi X non erano innocui, in quanto potevano causare danni ai tessuti. Questa consapevolezza, sebbene acquisita con metodi poco ortodossi per i nostri standard (molti medici sperimentavano i raggi X su sé stessi e sui pazienti), suggerì anche che i raggi, oltre a diagnosticare, avrebbero potuto curare. Il loro potere distruttivo, forse, poteva essere usato a vantaggio della medicina.
Da allora, gradualmente, il progresso tecnologico e medico ha sviluppato un vasto arsenale di tecniche di imaging a raggi X che oggi sono in uso nella routine clinica, oltre a protocolli per minimizzare i rischi di pazienti e operatori. Al contempo, abbiamo anche capito come usare i raggi X nelle terapie contro i tumori.
Oggi sappiamo che i raggi X sono radiazioni ionizzanti, cioè in grado di strappare elettroni alle molecole (comprese quelle biologiche), e questo è il motivo per cui in alcuni dei primi esperimenti, senza le opportune misure di sicurezza, potevano addirittura causare bruciature. Ma queste radiazioni possono anche fare danni invisibili: avendo un effetto mutageno sul DNA, possono favorire alterazioni in grado di dare origine a cellule tumorali. Quando facciamo una radiografia, oggi il rischio è ridotto ai minimi termini grazie alle procedure utilizzate. Nella radioterapia, invece, i raggi X sono usati per distruggere i tumori stessi. Attraverso diverse tecniche è possibile schermare i tessuti sani e colpire prevalentemente quelli malati, uccidendo così le cellule cancerose.
In questa prima parte ci siamo concentrati, quindi, sulla storia della scoperta dei Raggi X e sulle sue ricadute tecnologiche, principalmente in campo medico dove si sono rivelati di fondamentale importanza, in quanto le terapie basate sull’utilizzo di questo tipo di radiazione sono in prima linea nella lotta contro il cancro. Nella seconda parte, come di consueto, ci occuperemo dell’astronomia a Raggi X. Vedremo come gli astronomi, con la loro personale “visione a Raggi X”, sono riusciti, anche questa volta, ad ascoltare nuovi racconti cosmici che altrimenti sarebbero rimasti celati nelle profondità dell’universo.
A cura di Giuseppe Lamberti
BIBLIOGRAFIA